In Italia, il diritto a manifestare è sancito dall’articolo 17 della Costituzione. Eppure, quanto sta accadendo a Bologna con i 10.000 lavoratori metalmeccanici che rischiano il processo per aver partecipato a una manifestazione pacifica solleva interrogativi profondi sullo stato di salute della nostra democrazia. A denunciarlo con forza è Benedetto Di Iacovo, Segretario Generale della CONF.I.A.L., che nel suo editoriale parla senza mezzi termini di un “paradosso giuridico e civile”.
La vicenda è nota: decine di migliaia di lavoratori hanno partecipato a cortei e presidi nell’ambito delle mobilitazioni del comparto metalmeccanico. Una protesta legittima, organizzata, civile. Tuttavia, in seguito all’applicazione rigida del cosiddetto “Decreto Sicurezza”, approvato nel 2018 e successivamente modificato, si è aperto un fronte giudiziario che vede oltre 10.000 manifestanti potenzialmente incriminati per reati legati all’ordine pubblico.
Quando la protesta diventa processo
Secondo il decreto, determinate forme di protesta — anche simboliche, come il blocco temporaneo del traffico o l’occupazione di spazi pubblici — possono essere sanzionate penalmente. Applicando alla lettera queste disposizioni, la Procura competente ha avviato migliaia di procedimenti, tutti concentrati nel tribunale di Bologna. Un fatto che non solo mette in discussione il senso stesso del diritto a manifestare, ma rischia anche di paralizzare la giustizia ordinaria di un’intera città.
“Se in una settimana dovessero svolgersi cinque manifestazioni con migliaia di partecipanti ciascuna, quale tenuta avrebbe l’apparato giudiziario bolognese? E qualsiasi altra giurisdizione del Paese?” – si chiede Di Iacovo nell’editoriale pubblicato su Confial TV.
Una domanda legittima, che non riguarda solo il mondo sindacale, ma l’intero sistema democratico. Perché ogni minuto e ogni risorsa impiegata in questi processi è tempo sottratto a cause civili, penali, familiari, e ad altre vertenze che attendono da anni una risposta.
Il rischio: criminalizzare il dissenso
CONF.I.A.L. non giustifica l’illegalità né atti violenti. La posizione è chiara: no agli abusi, no alla strumentalizzazione della piazza, sì alla protesta civile e costituzionalmente tutelata.
Il problema, però, sta proprio qui. Se manifestare civilmente comporta il rischio concreto di finire sotto processo, si apre uno scenario inquietante: un’Italia dove il diritto a protestare è tecnicamente garantito, ma praticamente inibito.
“Non possiamo accettare che chi alza un cartello o intona uno slogan venga trattato alla stregua di un criminale” – afferma ancora Di Iacovo.
Il rischio è che si arrivi a una repressione amministrativa di massa, automatica e sproporzionata, dove la legge, nata per garantire la sicurezza pubblica, viene usata come strumento per zittire il dissenso e scoraggiare la partecipazione.
Un appello alla politica responsabile
Di fronte a questo scenario, CONF.I.A.L. lancia un appello chiaro alle istituzioni:
- rivedere il Decreto Sicurezza nelle sue applicazioni concrete;
- distinguere tra reato e disobbedienza civile;
- evitare che le leggi diventino strumenti repressivi, snaturando la loro funzione originaria.
L’obiettivo non è favorire l’anarchia o il caos, ma difendere il principio democratico secondo cui ogni cittadino ha diritto di esprimere dissenso, anche in forma collettiva e pubblica.
Perché quando una manifestazione pacifica genera 10.000 fascicoli giudiziari, il problema non sono i manifestanti, ma un sistema che non è più in grado di distinguere tra ordine e giustizia, tra sicurezza e censura.
Conclusione
Il diritto a manifestare è un pilastro della nostra democrazia. Svuotarlo di senso in nome dell’efficienza securitaria è un errore che può costare caro. CONF.I.A.L. continuerà a battersi affinché il sindacato non venga mai ridotto al silenzio e affinché i lavoratori possano far sentire la propria voce senza paura, senza repressione, senza processi di massa.
Perché se la legge diventa ingiusta, non è solo il manifestante a perdere: è lo Stato a fallire.